Quel che resta del giornalismo
(Povero "giornalismo" italiano, passato da Biagi a Biagiarelli tramite Selvaggia Lucarelli, ndr)
Selvaggia Lucarelli, giudice divinizzata dagli show televisivi, e la sua ricerca "della verità", contro i vecchi media tradizionali nell'ultimo giro di valzer dell'informazione. Ci salverà il vecchio Ordine dei giornalisti?
Ma come saremo mai passati da Biagi a Biagiarelli, il compagno investigatore di Selvaggia Lucarelli? Per districarci nel rapporto tra giornalismo e social e in generale per decifrare la temperie che ci ha ottenebrato nelle ultime settimane si è andati un martedì sera nebbiosissimo e di gelo urfido in uno degli ex scali ferroviari milanesi, il Farini, e lì ci si è persi in atmosfere alla Piero Chiara, cercando di raggiungere il coworking-libreria-e non si sa più cosa "Lampo", dove si teneva la presentazione del libro di Francesca Fialdini "Nella tana del coniglio, quando la lotta con il cibo diventa un’ossessione", scritto insieme allo psichiatra Leonardo Mendolicchio (una storia di disturbi alimentari). Lucarelli, che presenterà il libro, poche ore prima nel bordello della settimana più complicata che si possa immaginare, promette che quel momento sarà l'occasione "per fare un po’ di chiarezza su quello che sta succedendo".
Quello che sta succedendo è la Götterdämmerung degli idoli instagrammatici, prima la caduta dei Ferragnez provocata da Lucarelli medesima, e poi il suicidio della povera pizzaiola di Sant'Angelo Lodigiano messa alle strette (anche) da Lucarelli e Biagiarelli (anche lì, Piero Chiara: una donna che si sveglia all’alba, prende la macchina, nel gelo di quei giorni, prima si taglia le braccia poi si spoglia e si butta nel Lambro. Che orrore. Che disperazione).
Insomma si arriva a questo coworking in un piazzalone deserto, temperatura percepita meno venti, e ci sono come prevedibile un bel po' di giornalisti, telecamere, microfoni, che aspettano al varco Lucarelli. Invano perché lei viene fatta entrare tipo Taylor Swift da un'entrata secondaria. Colpisce l'ingenuo cronista, che si aspettava un'incertezza, un'espressione di disagio, qualcosa, la perfetta sicurezza di sé. Truccata, tranquilla e spigliata inizia il dibattito con gli altri due relatori. L'ingenuo cronista si aspetta anche qualche reazione dal pubblico. Niente, il pubblico ascolta invece rapito.
Intanto il cortocircuito cresce. "I social promuovono modelli estetici fasulli; tanti di noi subiscono questo tipo di bombardamento sui social", dice Lucarelli. "C'è qualcosa di malsano e pericoloso in tutto questo", osserva. "Quant'e difficile intervistare persone che soffrono?", domanda. "Non abbiamo ancora parlato di bulimia" proferisce con voce rotta dall'emozione. E il culmine: "Questa è una domanda delicata, voglio essere molto attenta a porla… I pensieri suicidari sono molto presenti in questo genere di dinamiche? Come si manifestano?".
I pensieri suicidari. Nessuno dal pubblico dice nulla, ma come è possibile? Sono passati pochi giorni dalla morte della povera pizzaiola (i cui motivi e stato mentale ovviamente dovranno essere chiariti), ma è come se non fosse mai avvenuto. Arriva il fatidico momento delle domande dal pubblico, una giornalista di "Dritto e rovescio" di Rete4 domanda, Lucarelli non risponde, dice che "dopo avrete tutto il tempo per crocifiggermi", o qualcosa del genere, rimproverando i cronisti. "Non state facendo una bella figura, qui stiamo parlando di fame d'amore, non di scoop", e poi però scappa dall'uscita posteriore. I cronisti inferociti e infreddoliti si lamentano, figurette nella nebbia gelida. "Pagliaccia", "vergognati", mugugnano, e se ne tornano a casa. Il pubblico invece è entusiasta. Ma quale Lucarelli è quella che stiamo vedendo? La giornalista (Selvaggia Lucarelli non è giornalista e non fa parte dell'Ordine dei giornalisti, ndr) o la diva televisiva con la sua aura da prima serata creata nell'altra sua attività di giudice di "Ballando con le stelle"? No, oggi Lucarelli è nella sua versione "mental health", esperta di anoressia e bulimia e relazioni tossiche, già autrice di "Proprio a me", il podcast, oltre al libro "Crepacuore - Storia di una dipendenza affettiva".
Fuggiti dal coworking, si riflette. Anche tra influencer e giornalisti la relazione è molto tossica. Come si è arrivati al blogger-cuoco che indaga per conto della fidanzata telefonando ai ristoratori tipo Jessica Fletcher alla pizzaiola (se uno sceneggiatore lo scrivesse gli direbbero: anche meno, dai, ma chi ci crede?). Come è possibile che il giornalismo oggi sia percepito come "debunking" di stronzate del genere? E se ne possa morire? Una teoria: forse c'è una correlazione col fatto che il giornalismo vero, quello dei giornali addirittura di carta, che si possono trovare in quegli antichi avamposti chiamate edicole, non sembra più indagare su alcunché.
Anche se non è vero. Certo leggere i giornali (su carta e online, magari pagando pure il fastidioso abbonamento) è diventato uno slalom tra refusi e imprecisioni e vaccate. Consapevole e forse anticipando la sua dipartita il mondo dei media si è consegnato ai social che nel frattempo forse riempiendo un vuoto si son messi a fare il nostro lavoro: a modo loro, però.
I vecchi radioattivi giornali si sono infilati da anni in un inseguimento fallimentare degli influencer. Tutti noi analogici novecenteschi ormai siamo lì a piatire un contatto magico con queste creature mezze umane e mezze smartphone: come se loro, moderne divinità, semplicemente col loro tocco potessero moltiplicare la merce avariata che noi produciamo: giornali e libri. Naturalmente gli influencer lo sanno, e trattano di conseguenza il giornalismo. Ci disprezzano, giustamente, vedendo come siamo ridotti. Siamo utili solo nel momento fatale in cui la creatura mezzo umana e mezzo telefono deve ripulirsi, diventa establishment, e allora lì l'intervista a Corriere e Repubblica la fa (nel resto dei casi, i giornalisti sono "giornalai"). Poi noi ci meritiamo tutto eh. L'altro giorno ho scritto un pezzo raccontando che nessuno nel settore voleva parlare del caso Ferragni, e citavo una story di una influencer, e poco dopo mi ha chiamato un collega di una primaria testata per complimentarsi per la mia intervista a questa influencer (ma nel pezzo si diceva espressamente che questi non si fanno intervistare manco morti. Vabbè).
Però forse questo cialtronismo è anche una garanzia democratica, che non ti fa sprofondare nella "ricerca della verità", Biagiarelli dixit. Il rapporto tra il giornalismo e l'Internet in genere, specialmente in Italia, è una puntata di "Boris" (come quasi tutto in Italia). Titoli acchiappaclick (ma che ti acchiappi?), sensazionalismo, sudditanza culturale, incomprensione del mezzo. Vieni ancora spesso e volentieri richiesto di scrivere "un pezzo veloce, tanto è per il web", al che tu povero scrivente ti chiedi: ma cosa cambia se è per il web? (anzi, cambia in peggio, infatti rimarrà lì per sempre, con gli strafalcioni e tutto, e infatti il web è un cimitero di articoli scritti in mezz'ora con strafalcioni d'epoca). A differenza di loro, le creature, la cui attività principale è far scomparire le proprie tracce digitali: postano e cancellano a più non posso, col favore delle tenebre.
E poi sì, è vero, facciamo pochi controlli, anche di questo si dirà. Se si pensava che la carta potesse contaminare il digitale, con le magnifiche sorti del giornalismo che con Internet conosceva un sistema di distribuzione potenzialmente gratuito e illimitato in grado di raggiungere masse assetate di notizie, è avvenuto il contrario. I giornali non sono entrati nelle case delle masse, ma le masse sono entrate nelle redazioni. Così molti quotidiani sembrano le bacheche Facebook di anziani illetterati, sia per il tono che per il sensazionalismo che per le foto (magari prese dal profilo Facebook di qualcuno). L'infotainment scritto è molto peggio di quello visuale. Ci sono poi due sigle fatali in questa dinamica. Al posto della dittatura del politicamente corretto (che sostiene soprattutto i fatturati di chi è "fuori dal coro", cioè tutti, non essendovi coro), le due vere dittature che albergano in Italia sono quella del pdf e quella dello screenshot. La dittatura del pdf prevede che nel paese che ha il tasso più basso di alfabetismo digitale, lettori anche forti di quotidiani cartacei, una volta passati all'online, magari abbonati al New York Times e all'Atlantic, il giornale italiano lo pretendono in pdf, e a domicilio (un interessante business model, che stranamente Harvard e Yale non hanno ancora studiato). Tra questi, tra i pochi rimasti che leggono i giornali, fatto 100 il totale, in 90 ti scrivono un soave messaggino: che mi manderesti il pidieffino? Le scuse (quando ci sono) sono le più fantasiose: "sai sono in Turchia sul caicco, qui non ci sono edicole" (sì, immagino che in acque turche non ci siano edicole, e anche se ci fossero non credo avrebbero il Foglio; e però mi domando: ma se l'iPhone 35 dal valore di un monolocale con cui mi stai scrivendo, oltre a comprarlo, hai pure imparato a usarlo, cosa ti frena non dico dall'abbonarti a un quotidiano, ma di comprare la copia singola?). Con il pdf si realizza una perfetta economia circolare, tu fai il pezzo e poi gli unici che lo leggerebbero comprandolo, cioè persone mediamente alfabetizzate, te lo chiedono in regalo. Di nuovo a nostro sfavore: le app dei giornali sono per complicazione e capacità di non riconoscerti mai, anche se tu ci scrivi, su quel giornale, seconde solo alle app dei treni.
L'altra dittatura è quella dello screenshot. C'è una proporzione inversa tra la polemica e la lettura del testo. Nessuno legge più un articolo, soprattutto se ci vuol fare polemica sopra; non è che si può avere tutto. Si leggono solo titoli e blocchetti estrapolati che possono essere usati in qualunque modo come brandelli di conversazione intercettata. Non si capisce il tono, non si capisce se uno è serio o scherza, non si capisce niente. Lo screenshot, abbreviato "screen", è la moneta sonante delle polemiche online, e quella fumante delle shit storm. All'epoca di una mia anziana shit storm, finii sotto accusa per un mio pezzo che diventò per una volta come si dice, con metafora medica, virale. Andai a chiedere, eccitato, come compenso per lo stress, le visualizzazioni: bassissime, nulle. Tutti si indignarono insomma per un pezzo che nessuno ha mai letto. Lo screen è il bitcoin del nuovo giornalismo: lo screen inchioda tutti alle loro responsabilità, tutti fanno screen di tutti, conversazioni private, fotografie, e anche recensioni. Il recensionismo è la base del biagiarellismo. Pare che i biagiarellisti abbiano intere squadre che dalla mattina alla sera sono a caccia di errori, di passi falsi, di cazzate, quelle che tutti fanno prima o poi, e queste vengono appunto fotografate in uno screen, da cavalcare prontamente per la rissa del giorno o da conservare accumulandole per il futuro. Se va in porto la biagiarellata, il l'indagato si dice, con metafora invece stradale, "asfaltato". Quello l'ha asfaltato, quell'altra è stata asfaltata, essi sono stati asfaltati (un po' come nel vecchio sketch di Gigi Proietti; qua t'asfaltamo, qua te s'asfaltano, ecc.). L'inchiesta asfaltatoria è diventata disciplina olimpica, e naturalmente anche qui il vecchio giornalista analogico arriva ultimo. Un po' perché è pigro, è vero, e poi ci sono i biagiarelli che lavorano per lui. Nella pesca a strascico dello screen la polemica del giorno gli arriverà già semilavorata e porzionata, buona da mettere in home page come "fenomeno social". Il vecchio giornalista poi avrà tanti difetti ma magari è cresciuto con la cronaca giudiziaria e non si appassiona nel genere di delitti che scuotono l'opinione pubblica digitale; la recensione della pizzeria, e del bar e della camera d'affitto; e il tramezzino tagliato in due, e il piattino a 2 euro, non dimentichiamoci il piattino a 2 euro. L'altra sera andava in tv la povera ostessa ligure che aveva inventato il minicoperto per chi magari in sei ordina un'insalata e sei piattini per dividere (vero, una trovata che solo a un ligure poteva venire in mente). La signora previdente ligure ha raccontato di essere stata perseguitata per mesi da messaggi e telefonate minatorie (lo "screen" questa volta era dello scontrino del locale, con ragione sociale e indirizzo e numero di telefono). Si è già detto, ma alla fine la profezia di Boris (solo la ristorazione è una cosa seria in Italia) si è avverata, e il risentimento e l'individualismo italiani sembrano aver trovato lo sbocco in un format ibrido tra "4 Ristoranti" e "Un giorno in pretura" (del resto l'Italia non è mai stata celebre mondialmente per il suo giornalismo d'inchiesta, ecco, diciamolo, prediligendo un giornalismo narrativo. Parlare di "cani da guardia del potere" farebbe abbastanza sorridere. Ma siamo forti per il food. Però di qui a passare a fare i cani da guardia dei menu ci poteva essere una via di mezzo).
Il vecchio giornalista analogico poi sa quello che ormai è conclamato anche dalla scienza. Rovistare nella melma dei social è attività usurante. Intanto devi stare tutto il giorno tra Instagram e Twitter e questa esposizione ti porta disturbi del sonno, e una leggera depressione. La melma ti contagia, ora lo riconoscono pure i tribunali: una corte di Barcellona ha riconosciuto a un dipendente di una società di "moderazione di contenuti" su Instagram e Facebook un risarcimento danni pari a quello di chi ha avuto un incidente sul lavoro (il dipendente poi è finito in trattamento psichiatrico).
Un altro aspetto che differenzia il vecchio giornalista cialtrone rispetto all'inflessibile segugio da menu è la pietà. Io per esempio in presenza di interlocutori che percepisco menomati o casi umani tendo o ad abbandonare il campo o a fargli dire qualcosa di brillante, inventando. Più d'una volta gli stessi mi han poi detto: ma io non ho mai detto quelle cose così intelligenti.
Ma la conseguenza finale e imprevedibile del biagiarellismo è che ci ha portato incredibilmente a riconsiderare il nostro vecchio, impresentabile, odiato Ordine dei giornalisti. La corporazione a cui ogni anno conferiamo smadonnando 120 euro, e che ci sottopone a inutili corsi di aggiornamento tenuti da vecchi arnesi della professione. Quante volte abbiamo bestemmiato per quelle lezioni di "etica" che ci valevano punti per non essere cacciati (ma dateci piuttosto delle lezioni di economia! Di inglese! Di cinese!, dicevamo). Chi l'avrebbe mai detto che alla fine saremmo arrivati a rivalutare proprio lui, il vecchio, sporco e cattivo Odg. È tutta colpa tua, Selvaggia. Abbiamo lo screenshot.
Fonte: Michele Masneri su Il Foglio
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